I nuovi dazi USA 2025 e l’impatto sull’export agroalimentare italiano

Foto di Free Malaysia Today (FMT)
Il 2 aprile 2025, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’introduzione di nuovi dazi sulle importazioni, imponendo una tariffa del 20% sui prodotti provenienti dall’Unione Europea (UE). Questa misura, denominata “Liberation Day”, ha come obiettivo dichiarato quello di correggere gli squilibri commerciali e promuovere l’industria manifatturiera statunitense.
Questi dazi avranno un impatto significativo sul settore agroalimentare europeo, in particolare sull’Italia, nota per l’export di prodotti come olio d’oliva, vino, spumanti e formaggi. L’inasprimento delle tariffe potrebbe rendere questi prodotti meno competitivi sul mercato statunitense, influenzando negativamente le esportazioni italiane.
In questo articolo esaminiamo nel dettaglio i dazi USA annunciati dal presidente Trump, il loro impatto atteso sul settore agroalimentare italiano e le contromisure adottate dall’Unione Europea per sostenere i produttori.
Articolo aggiornato al 10 aprile 2025.
Aggiornamento 10 aprile 2025
Il 9 aprile 2025, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato una sospensione di 90 giorni dei dazi “reciproci” precedentemente imposti a numerosi partner commerciali, tra cui l’Unione Europea. Durante questo periodo, verrà applicata una tariffa uniforme del 10% sulle importazioni da questi paesi.
Tuttavia, la Cina è stata esclusa da questa sospensione: i dazi sulle importazioni cinesi sono stati aumentati al 125%, a causa delle tensioni commerciali in corso.
Questa decisione offre una finestra temporale per negoziati commerciali tra gli Stati Uniti e i suoi partner, inclusa l’Unione Europea. Per l’Italia, ciò significa che prodotti come vino, olio d’oliva e formaggi destinati al mercato statunitense saranno soggetti a un dazio del 10% durante questo periodo. È fondamentale che i produttori italiani monitorino attentamente l’evolversi delle trattative per adattare le proprie strategie di export di conseguenza.
Indice dei contenuti
- Introduzione e contesto (dazi USA 2019 vs 2024-25)
- L’export agroalimentare italiano verso gli USA: panorama generale
- Vini e spumanti primo mercato a rischio dopo i dazi USA
- Olio d’oliva: un prodotto insostituibile, ma rincarato
- Formaggi e latticini: eccellenze DOP sotto tariffa
- Altri prodotti agroalimentari colpiti dai dazi USA
- Come possono reagire i produttori italiani ai dazi USA?
- Strategie di marketing e diversificazione per mitigare l’effetto tariffe
- Il ruolo delle istituzioni: supporto UE e PNRR per i produttori contro i dazi USA
- Conclusione
Introduzione e contesto (dazi USA 2019 vs 2024-25)
Nel 2019 l’amministrazione Trump aveva già imposto pesanti dazi aggiuntivi (fino al +25%) su una serie di prodotti europei, colpendo in particolare l’agroalimentare italiano. All’epoca prodotti simbolo come il Parmigiano Reggiano subirono rincari rilevanti (il prezzo al dettaglio salì da ~40 a 45 $/kg), ma fortunatamente quei dazi furono poi sospesi a inizio 2021 senza gravi contraccolpi sulle vendite. Questo precedente storico fa da sfondo all’attuale scenario: tra fine 2024 e inizio 2025, l’amministrazione Trump (nuovamente in carica) ha annunciato una nuova ondata di dazi generalizzati sulle importazioni verso gli USA, riaccendendo i timori di una “guerra commerciale” transatlantica.
Cosa prevedono i nuovi dazi (2024-2025) – A differenza del 2019, i dazi più recenti hanno portata ancora più ampia. L’annuncio di Trump, introduce tariffe generalizzate del 10% su tutte le importazioni. Le aliquote risultano maggiorate per alcuni Paesi considerati in surplus commerciale con gli USA. In particolare l’Unione Europea viene colpita da un dazio aggiuntivo del 20% sulle sue esportazioni verso gli Stati Uniti. Ciò significa che molti prodotti agroalimentari italiani, prima soggetti a dazio doganale intorno al 0-10%, ora scontano complessivamente un dazio del 20% all’ingresso sul mercato USA. Ad esempio, il dazio doganale sul Parmigiano Reggiano è passato dal 15% al 35%. Le nuove tariffe sono entrate in vigore ad aprile 2025 e riguardano in pratica tutti i beni UE, senza esentare le categorie agroalimentari: vino, spumanti, formaggi, olio d’oliva, salumi, pasta, ortofrutta trasformata, ecc., subiscono tutti un rincaro tariffario di circa +20%.
Non sono stati annunciati indennizzi o accordi compensativi, il che preoccupa fortemente gli esportatori europei. Organizzazioni di categoria UE hanno espresso rammarico. Nelle sezioni seguenti analizziamo l’impatto specifico di questi dazi sul settore agroalimentare italiano, con focus sui prodotti chiave (olio d’oliva, vini e spumanti, formaggi e altri derivati agricoli), e discutiamo possibili contromisure e strategie di adattamento per imprese e istituzioni.
L’export agroalimentare italiano verso gli USA: panorama generale

Gli Stati Uniti rappresentano un mercato di primaria importanza per il Made in Italy agroalimentare. Nel 2024 l’export italiano di cibo e bevande verso gli USA ha raggiunto un valore record di circa €7,8 miliardi, pari a quasi un quarto di tutto l’export agroalimentare dell’UE verso gli States. Gli USA sono il secondo sbocco commerciale per l’agroalimentare italiano dopo la Germania. In altre parole, 1 prodotto agroalimentare italiano su 10 esportato nel mondo finisce sulle tavole americane.
La tabella sottostante riassume i principali segmenti merceologici dell’export agroalimentare italiano negli USA (dati 2024):
Settore | Valore export verso USA (2024) |
---|---|
Vino (inclusi spumanti) | ~€2.000 milioni |
Olio d’oliva | ~€1.000 milioni |
Pasta | ~€1.000 milioni |
Formaggi | €550 milioni |
Altri prodotti alimentari | ~€3.300 milioni |
Totale agroalimentare | ~€7.800 milioni |
Fonte: dati 2024, CIA-Agricoltori Italiani.
I quattro settori indicati (vino, olio, pasta, formaggi) da soli costituiscono circa la metà del nostro export agroalimentare negli USA. Questo evidenzia come l’export italiano oltreoceano sia fortemente concentrato su alcuni prodotti-cardine della nostra tradizione. Di conseguenza, tariffe doganali su queste categorie rischiano di provocare un effetto domino importante sull’intero valore delle nostre vendite negli States. Confcooperative stima infatti che le nuove barriere tariffarie potrebbero comportare una contrazione di fatturato annua intorno ai 2 miliardi di euro per l’export agroalimentare italiano verso gli USA. Confagricoltura prospetta addirittura perdite fino a 3 miliardi considerando anche gli effetti indiretti dovuti al calo di competitività. Di seguito analizziamo in dettaglio l’impatto settore per settore, focalizzandoci sui comparti più esposti.
Vini e spumanti primo mercato a rischio dopo i dazi USA

Gli Stati Uniti sono storicamente il primo mercato extra-UE per il vino italiano, nonché il primo al mondo per valore: nel 2024 le esportazioni di vino italiano negli USA hanno toccato i €2 miliardi (+6,6%), con gli Stati Uniti che assorbono circa 1/4 del vino made in Italy esportato globalmente. Questo successo riguarda sia i vini fermi e frizzanti (rossi e bianchi), sia gli spumanti: ad esempio il Prosecco – fiore all’occhiello tra gli spumanti – ha esportato negli USA ~491 milioni € nel 2024, pari al 27% di tutto l’export di Prosecco (quasi un terzo della produzione). Alcune denominazioni dipendono in modo ancora più critico dal mercato statunitense: i vini bianchi DOC del Trentino-Alto Adige e Friuli VG vi destinano quasi il 48% del loro export, i grandi rossi toscani il 40%, i rossi piemontesi oltre il 30%.
Questa forte presenza sul mercato USA significa che i nuovi dazi del 20% rischiano di colpire duramente il settore vinicolo italiano. Un dazio aggiuntivo riduce la competitività di prezzo delle nostre etichette rispetto ai concorrenti. Ad esempio, vini da Paesi non colpiti (o colpiti meno) dai dazi – es. Argentina, Cile, Australia – potranno aggredire le quote lasciate scoperte dai rincari dei vini italiani.
La CIA stima che dazi prolungati “possono scombinare” i nostri grandi numeri nel vino, “lasciando strada libera ai competitor” dal Malbec argentino allo Shiraz australiano. Da notare che nell’impianto dei dazi USA 2025 alcuni Paesi concorrenti sono trattati in modo preferenziale: ad esempio i vini australiani scontano un dazio del 10%, contro il 20% dei vini italiani, creando un evidente vantaggio competitivo per questi ultimi sul mercato americano.
Le conseguenze attese
Le conseguenze attese includono calo di vendite e di quote di mercato per le aziende vinicole italiane negli USA. Secondo Coldiretti, l’impatto tariffario sul vino potrebbe costare quasi €500 milioni l’anno in mancati introiti. Stime più pessimistiche (Unione Italiana Vini) ipotizzano perdite anche superiori, fino a €1 miliardo considerando uno scenario di piena applicazione del dazio 25% combinato a un rallentamento economico generale.
Già in passato si sono visti effetti pesanti: tra il 2019 e il 2020 (quando era in vigore un dazio del 25% su alcuni alcolici), il mercato USA dei liquori e distillati italiani crollò di ~40% in valore. I produttori di vino temono dunque un contraccolpo simile. I segmenti di fascia media saranno i più vulnerabili, poiché i consumatori americani potrebbero sostituirli con vini più economici locali o di altri Paesi. I vini di alta gamma premium (es. Super Tuscan, Barolo, spumanti metodo classico di prestigio) potrebbero resistere un po’ meglio grazie a un pubblico disposto a pagare di più per l’autenticità, ma subiranno comunque un restringimento del mercato. Va detto che anche la concorrenza europea è penalizzata (Francia, Spagna subiscono lo stesso dazio 20%), quindi parte dei consumi USA potrebbe spostarsi verso prodotti non europei oppure verso il domestico.
In definitiva, il rischio per il vino italiano è di perdere terreno nel suo mercato estero più importante, con un danno sia immediato in termini di vendite perse, sia di lungo periodo in termini di posizionamento.
Olio d’oliva: un prodotto insostituibile, ma rincarato

L’olio extravergine d’oliva è un altro pilastro dell’export agroalimentare italiano negli USA. Nel 2024 l’Italia ha esportato circa 100 mila tonnellate di olio di oliva negli Stati Uniti, per un valore vicino a €1 miliardo (pari a 34% dell’export oleario italiano mondiale). Gli USA sono il primo mercato estero per l’olio italiano, frutto anche di una crescita di +158% nelle vendite decennale. Questo successo è dovuto alla crescente attenzione del consumatore americano verso la dieta mediterranea: ben 73% dell’olio da tavola importato negli USA è olio EVOO (olio extravergine), prodotto salutistico di cui l’Italia è fornitore leader.
Il nuovo dazio del 20% minaccia di interrompere questa traiettoria positiva. Impatto atteso: un rincaro dei prezzi dell’olio italiano sugli scaffali USA di circa +$1-2 a bottiglia (stimando il 20% su un prezzo medio di €8-10/litro). Questo potrebbe frenare la domanda da parte di ristoranti e consumatori, rendendo il nostro olio meno competitivo rispetto ad alternative più economiche. Chi ne potrebbe beneficiare? Da un lato gli oli concorrenti non europei (es. olio di oliva tunisino, turco, o dal Mediterraneo orientale) se non soggetti agli stessi dazi – ma va notato che molti grandi esportatori di olio sono proprio UE (Spagna, Grecia) e quindi anch’essi colpiti. Dall’altro, c’è il concreto rischio che i consumatori USA ripieghino su oli vegetali di semi locali (soia, mais, colza), già più economici e ora relativamente ancora più convenienti. Questo scenario sarebbe un passo indietro anche culturale dopo anni di educazione del gusto americano verso l’olio extravergine.
La produzione di olio di oliva negli USA è minima
C’è però da sottolineare un punto importante: gli Stati Uniti dipendono quasi totalmente dall’import per l’olio d’oliva. Il consumo annuo USA è di ~350.000 tonnellate, mentre la produzione domestica (soprattutto in California) è sotto le 20.000 ton/anno – copre appena il 5% del fabbisogno nazionale. In virtù di ciò, alcuni osservatori ipotizzano che l’olio d’oliva europeo potrebbe ottenere un’esenzione dai nuovi dazi, rientrando tra i prodotti “non reperibili a livello domestico” negli USA. L’ICE (Istituto Commercio Estero) ha invitato le imprese italiane a “monitorare possibili eccezioni o meccanismi di esclusione” nei provvedimenti USA. Se tale deroga si concretizzasse, sarebbe uno spiraglio importante: l’olio d’oliva potrebbe evitare l’aumento tariffario, continuando a fluire sul mercato americano senza penalizzazioni. Al momento però non vi è certezza su questa esenzione, quindi i produttori devono prepararsi allo scenario peggiore.
In assenza di esenzioni, l’olio italiano in USA subirà verosimilmente un calo di vendite. Coldiretti stima un possibile mancato guadagno di circa €240 milioni annui per il settore oleario. Le grandi industrie olearie (che esportano olio sfuso o imbottigliato a marchio commerciale) potrebbero valutare di assorbire parte dei costi o rifornirsi di olio da Paesi non colpiti per i blend destinati all’America, per mantenere prezzi competitivi.
I produttori di oli DOP/IGP di alta gamma (es. Toscano IGP, Olio di Sicilia) punteranno invece a far leva sulla qualità certificata per convincere i consumatori a non rinunciare nonostante il prezzo più alto. Anche in questo comparto c’è il pericolo Italian Sounding: se l’olio autentico rincara, potrebbe proliferare ancor di più l’uso improprio di denominazioni italianeggianti su oli esteri, confondendo il consumatore (es. marchi che evocano l’Italia su prodotti di origine tunisina o argentina). In sintesi, il settore oleario italiano rischia un rallentamento proprio nel momento in cui aveva conquistato una posizione dominante negli USA, a meno che non intervengano correzioni o esclusioni specifiche su questo prodotto strategico.
Formaggi e latticini: eccellenze DOP sotto tariffa

Gli export caseari italiani verso gli Stati Uniti hanno raggiunto livelli record nel 2024: 40.000 tonnellate di formaggi italiani esportate negli USA (+10% sul 2023), per un valore di €486 milioni. Gli USA sono il primo mercato extra-UE per molti formaggi DOP: circa il 10% dell’export totale di formaggi italiani è assorbito dal mercato americano. In particolare, gli Stati Uniti sono il primo mercato estero per i formaggi grana DOP (Parmigiano Reggiano e Grana Padano), formaggi simbolo del Made in Italy.
I dazi aggiuntivi del 20% creano un immediato shock di prezzo su queste specialità. Il dazio doganale complessivo sul Parmigiano Reggiano sale al 35%, incrementando il prezzo all’import di circa 6-7 €/kg. Ciò potrebbe significare, per il consumatore finale americano, prezzi al dettaglio aumentati di diversi dollari per libbra di Parmigiano o Grana. Esperienza storica: durante la precedente ondata di dazi , il Consorzio Grana Padano registrò un calo di circa -20% nelle vendite negli USA, con un accumulo di invenduto che deprezzò le forme in magazzino. Si stima che quelle tariffe siano costate ai produttori ~€100 milioni l’anno di mancato export. Fortunatamente la fedeltà di parte della clientela americana verso i prodotti autentici rimase alta – come dichiarato dal presidente del Consorzio Parmigiano, molti americani “hanno continuato a sceglierci anche quando il prezzo è aumentato”. Parmigiano & Co. occupano una nicchia premium: coprono ~7% del mercato USA dei formaggi duri, venduti a un prezzo più che doppio rispetto ai prodotti locali, quindi non fanno vera concorrenza ai formaggi americani comuni.
Tuttavia, una parte di consumatori sensibili al prezzo potrebbe ridurre gli acquisti, oppure orientarsi verso surrogati a basso costo (i famigerati “Italian sounding”, come il parmesan prodotto industrialmente negli USA). I dazi finiscono per arrecare danno doppio: perdita di quota per l’originale e proliferazione del falso.
L'impatto economico stimato dei dazi USA sui prodotti caseari
Per il settore formaggi si stima un impatto economico di -€120 milioni annui di export in meno a causa delle tariffe. I consorzi di tutela e le imprese casearie italiane stanno valutando contromosse. Alcuni grandi produttori avevano tentato in passato di assorbire temporaneamente i dazi riducendo il margine, pur di non alzare troppo i prezzi al pubblico USA; ma ciò è sostenibile solo sul breve periodo.
Un’altra opzione è diversificare la gamma: ad esempio spingere di più formaggi italiani non soggetti a denominazione (e magari con dazi base più bassi) oppure i formaggi freschi. Interessante notare che nella lista di dazi USA 2019 alcuni formaggi freschi come la Mozzarella di Bufala furono esclusi inizialmente; questa volta sembrano invece inclusi nel dazio generico, colpendo un prodotto il cui export USA vale ~€10-15 milioni (4-7% del suo export totale). Ciò inciderebbe soprattutto sul settore Ho.Re.Ca. americano (pizzerie e ristoranti italiani) che usano mozzarella DOP, un segmento disposto a pagare premi, ma comunque influenzabile da rincari e che potrebbe ridurre gli ordini.
In sintesi, per i formaggi DOP italiani il dazio USA 2025 rappresenta una seria minaccia: pur essendo beni con domanda relativamente anelastica nei consumatori affezionati, subiranno quasi certamente un calo di volumi venduti negli States e dovranno affrontare ancora più concorrenza sleale dai fake domestici. Il risultato combinato potrebbe essere un minor assorbimento di prodotto, pressione al ribasso sui prezzi alla produzione (per eccesso di offerta non collocata) e perdite di fatturato difficilmente recuperabili altrove nel breve periodo.
Altri prodotti agroalimentari colpiti dai dazi USA

Oltre ai settori già menzionati, i dazi USA investono una vasta gamma di altri prodotti agricoli e alimentari italiani. Pasta e prodotti da forno: Gli USA importano moltissima pasta italiana (circa €805 milioni nel 2024). Brand italiani come Barilla, De Cecco, Divella dominano gli scaffali americani.
Un dazio del 20% sulla pasta Made in Italy rischia di far salire i prezzi di pasta secca e prodotti da forno di grano duro (biscotti, etc.) sul mercato USA. In parte l’impatto potrebbe essere mitigato dal fatto che i grandi pastifici italiani producono anche localmente (Barilla ad esempio ha stabilimenti negli States), aggirando così i dazi sulle referenze “made in USA”. Tuttavia, le paste di nicchia, artigianali o DOP (es. Pasta di Gragnano IGP) esportate dall’Italia diventeranno meno competitive. Coldiretti calcola in €170 milioni/anno la possibile perdita per il comparto pasta e affini. Ciò potrebbe favorire fornitori alternativi (Turchia, o produttori locali) e prodotti simil-italiani fabbricati in Nord America.
Ortofrutta e conserve
Prodotti come salse di pomodoro, pelati, conserve vegetali, aceto balsamico, caffè, cioccolato e dolciumi italiani hanno tutti mercato negli USA e rientrano nei beni colpiti dal dazio generale del 20%. Ad esempio l’Italia esporta molta conserva di pomodoro negli USA (polpa e pelati per decine di milioni di euro l’anno); questo prodotto ora sconta un dazio che ne aumenta il costo e può avvantaggiare altri esportatori (la California stessa è grande produttrice di pomodoro da industria e potrebbe sostituire parte dei nostri pelati). Anche alcune carni trasformate (salumi, prosciutti) e prodotti ittici italiani sono sul mercato USA: Parma e San Daniele già pagavano dazi elevati prima, ora si trovano un +20% ulteriore che ne limita fortemente l’accessibilità nei negozi gourmet americani. Complessivamente, tutti questi “altri” prodotti compongono la rimanente metà (~€3,3 mld) dell’export agroalimentare italiano negli USA (vedi tabella sopra) e subiranno chi più chi meno un contraccolpo. Prodotti di qualità con forte brand (es. Nutella di Ferrero – che però produce in Canada per il mercato NAFTA – o il caffè Illy) cercheranno di tenere i prezzi stabili assorbendo i dazi, mentre prodotti commodity o più facilmente sostituibili potrebbero vedere cali immediati di ordinativi.
Perdite potenziali annue per settore (dazi USA 2025)
Secondo un’analisi Coldiretti, sintetizzata nella tabella seguente, le tariffe USA potrebbero costare annualmente ai principali settori agroalimentari italiani centinaia di milioni di euro in mancato export:
Settore | Perdita potenziale annua |
---|---|
Vino e bevande | ~€500 milioni |
Olio d’oliva | ~€240 milioni |
Pasta e derivati cereali | ~€170 milioni |
Formaggi | ~€120 milioni |
Fonte: stime Coldiretti.
Tali perdite, sommate, sfiorano i €1,0-1,1 miliardi/anno, ma diventano circa €2 miliardi considerando tutti gli altri comparti minori e l’indotto. In termini di volume e posti di lavoro, questo shock metterebbe in difficoltà intere filiere alimentari orientate all’export.
Come possono reagire i produttori italiani ai dazi USA?

Di fronte a questi scenari, i produttori e le aziende italiane devono valutare strategie di adattamento per attutire l’impatto dei dazi. Alcune opzioni economico-logistiche possibili includono:
a) Assorbire internamente parte del costo dei dazi
Le aziende possono decidere di ridurre i propri margini sul prodotto venduto in USA, così da non aumentare (o aumentare meno) il prezzo finale per il consumatore americano. Questa strategia consiste nel “mangiare” il dazio, ovvero accollarsi il 20% di tassa riducendo il proprio guadagno unitario. Ovviamente è una soluzione tampone e non sostenibile a lungo termine per molte PMI, ma alcune grandi imprese potrebbero usarla temporaneamente per non perdere quote di mercato. Il rischio è un’erosione significativa della redditività: vendere allo stesso prezzo pre-dazio significa guadagnare nettamente meno su ogni unità venduta.
b) Trasferire il costo a valle (alzare i prezzi)
È l’opzione opposta alla precedente. Invece di comprimere i margini, si scarica interamente il dazio sul prezzo al cliente. In pratica il distributore/appaltatore USA paga di più il prodotto italiano, che arriva sugli scaffali a prezzo maggiorato. Questa strada tutela i conti dei produttori italiani nel breve, ma potrebbe ridurre drasticamente le vendite – i prodotti diventano meno competitivi e alcuni consumatori potrebbero rinunciarvi. È quindi una strategia rischiosa in termini commerciali, soprattutto per beni non di lusso.
c) Stock e gestione dei flussi doganali
Alcune aziende hanno provato ad anticipare le spedizioni prima dell’entrata in vigore dei dazi, accumulando scorte nei magazzini USA a dazio zero o inferiore. Questa pratica di stockpiling consente di guadagnare qualche mese di tempo vendendo prodotto non tassato aggiuntivamente. Tuttavia, è una soluzione una tantum. Una volta esaurite le scorte “pre-dazio”, le spedizioni successive pagano il 20%. Un’altra tattica logistica potrebbe essere l’impiego di depositi franco-doganali o triangolazioni: ad esempio inviare il prodotto in un Paese terzo non colpito e da lì reindirizzarlo negli USA. Ma le regole di origine USA fanno sì che il dazio si applichi comunque se l’origine è UE, quindi questi escamotage difficilmente evitano il tributo (possono al più posticiparlo o ridurne l’impatto finanziario con differimenti).
d) Delocalizzare la produzione negli Stati Uniti
È l’opzione più drastica. Consiste nell’investire in impianti produttivi o di confezionamento sul suolo americano, così che il prodotto venga fabbricato negli USA e non sia soggetto ai dazi (perché “made in USA”). Alcune grandi aziende lo hanno già fatto in passato (es. la Ferrero produce cioccolato in Nord America per quel mercato; Barilla produce pasta in Iowa, ecc.). Trasferire la produzione riduce la dipendenza dalle importazioni tassate, ma comporta costi elevatissimi e tempi lunghi. Inoltre, non è fattibile per molti prodotti DOP legati al territorio (es. non si può produrre Parmigiano Reggiano fuori dalla zona tipica, né coltivare uva Barolo in California). Questa strategia ha quindi applicazione limitata: potenzialmente per pasta secca, prodotti da forno industriali, vino di fascia commerciale (investendo in vigneti in USA) o formaggi freschi generici. Ma per la gran parte delle nostre eccellenze DOP/IGP non è una strada percorribile: sono tali proprio perché nascono da territori unici in Italia.
e) Lobbying per eccezioni o alleviamenti tariffari
Come accennato per l’olio d’oliva, imprese e istituzioni possono fare pressione affinché certi prodotti vengano esclusi dai dazi per motivi di interesse USA (mancata produzione interna, necessità dei consumatori). L’ICE suggerisce di monitorare tali possibili “meccanismi di esclusione”. In pratica, fornire dati al governo USA su come alcune importazioni italiane siano vitali e senza equivalenti domestici può aiutare a ottenere esenzioni (per esempio potrebbero escludere ingredienti cruciali per le industrie alimentari americane). Questo però dipende dalla volontà politica USA e non è garantito – inoltre, l’amministrazione Trump tende a usare i dazi proprio come leva negoziale, per cui le esenzioni saranno merce rara e magari condizionate a concessioni.
In definitiva, le aziende italiane devono probabilmente combinare più approcci: riduzione di costi interni, revisione dei listini, ottimizzazione logistica e dialogo con i partner americani per condividere i costi aggiuntivi. Non esiste una soluzione indolore, e tutti questi adattamenti hanno limiti. Il trasferimento di produzione è lungo e costoso, l’assorbimento dei dazi erode i profitti, l’aumento dei prezzi erode le vendite. Molte imprese cercheranno di tenere duro sul mercato USA nel breve periodo, magari accettando margini minori, nella speranza che i dazi siano temporanei o che si trovino accordi diplomatici.
Strategie di marketing e diversificazione per mitigare l’effetto tariffe

Oltre alle misure difensive sul piano dei costi, i produttori italiani possono mettere in campo strategie di marketing e di diversificazione commerciale per attenuare l’impatto dei dazi e preservare il valore delle proprie esportazioni.
Puntare sul valore del brand e l’autenticità
Una chiave importante è convincere i consumatori americani che vale la pena pagare un po’ di più per avere l’originale italiano. Campagne di marketing mirate possono sottolineare l’unicità dei prodotti DOP italiani, le tradizioni e la qualità superiore, in modo da mantenere la domanda nei segmenti premium nonostante il prezzo più alto. Ad esempio, promuovere attivamente l’idea che “Parmigiano Reggiano, quello vero, è uno solo” (come recita lo slogan consortile) e che le imitazioni non reggono il confronto qualitativo. Educare i consumatori sul perché dei rincari – spiegando che è a causa di dazi politici e non per volontà dei produttori – può generare simpatia verso il Made in Italy e fedeltà al prodotto autentico. In pratica, trasformare un rischio in un elemento narrativo: “supporta i veri prodotti italiani in un momento difficile”.
Diversificazione dei mercati di sbocco
Una lezione chiave da trarre è di non dipendere troppo da un solo mercato. Le imprese possono accelerare i piani di apertura verso mercati alternativi emergenti: ad esempio l’Asia (Cina, Giappone, Sud-Est asiatico), il Medio Oriente (Emirati, Arabia Saudita, Qatar) e l’America Latina. Queste aree hanno mostrato crescente appetito per i prodotti italiani (nel 2024 l’export caseario italiano in Asia è cresciuto del +20%) e possono assorbire parte del prodotto dirottato dagli USA. Diversificare geograficamente riduce la vulnerabilità ad azioni protezionistiche di un singolo paese. Come osserva L’Informatore Agrario, l’industria casearia italiana dovrà affrontare la sfida con una strategia mirata a “rafforzare la presenza in Asia, Medio Oriente e Sud America per ridurre la dipendenza da mercati” come quello nordamericano. Ciò vale anche per vino e olio: mercati come il Giappone (che ha un nuovo accordo EPA con l’UE, zero dazi), la Corea, il Canada (già in CETA provvisorio) offrono sbocchi alternativi senza barriere tariffarie elevate.
Innovazione di prodotto e adattamento dell’offerta
I dazi potrebbero spingere le aziende a innovare. Ad esempio, un produttore potrebbe sviluppare linee di prodotto specifiche per il mercato USA con formati o ingredienti tali da inquadrarli in categorie doganali a dazio inferiore. Si pensi ai prodotti alimentari “trasformati”: se il formaggio grattugiato fosse tassato diversamente dal formaggio in pezzi, un’azienda potrebbe esportare più prodotto sotto forma di grated cheese o miscelato in preparazioni alimentari, aggirando parzialmente l’aliquota. Oppure, per i vini, puntare su varietà meno note (magari non immediatamente riconducibili all’Italia) o su vini aromatizzati che abbiano codici doganali diversi. Queste sono finezze tecniche, ma rientrano nelle strategie di marketing di prodotto. Anche ridurre i formati (es. vendere olio in bottiglie più piccole) può aiutare: il prezzo unitario per bottiglia sarà più abbordabile, pur essendo più alto al litro, rendendo psicologicamente più accettabile l’acquisto al consumatore.
Esperienze dirette e vendita omni-canale
Le aziende possono investire di più nel canale e-commerce e nelle vendite dirette al consumatore USA. Ad esempio, attivando e-shop italiani che vendono e spediscono all’estero. In tal caso il cliente finale paga i dazi all’importazione, ma potrebbe essere più disposto se acquista un prodotto di nicchia direttamente dal produttore (es. formaggi particolari spediti sottovuoto). Organizzare tasting, eventi e collaborazioni con chef italiani in America può mantenere alta la visibilità dei prodotti e stimolare la domanda nonostante i prezzi. Inoltre, rafforzare la presenza sul mercato domestico italiano ed europeo può aiutare ad assorbire temporaneamente eventuali eccedenze: campagne promozionali interne (“compra italiano”) potrebbero compensare lievemente la flessione oltreoceano.
Il ruolo delle istituzioni: supporto UE e PNRR per i produttori contro i dazi USA

La risposta a una guerra commerciale non può essere lasciata ai soli imprenditori. L’Unione Europea e il Governo italiano stanno cercando di mettere in campo iniziative di sostegno e di negoziazione per tutelare le filiere colpite.
A livello europeo, la Presidente della Commissione e i ministri competenti hanno espresso ferma contrarietà ai dazi americani, sottolineando come queste tariffe unilaterali violino lo spirito di cooperazione commerciale. L’UE sta valutando azioni diplomatiche e legali: un ricorso al WTO per contestare la legittimità di dazi generalizzati per motivi di “sicurezza nazionale” (la motivazione addotta dagli USA) è sul tavolo, così come eventuali contromisure tariffarie su prodotti USA se il dialogo fallisse. Tuttavia, l’Europa preferisce evitare un’escalation: l’obiettivo dichiarato è convincere Washington a ritirare o attenuare questi dazi attraverso il negoziato. In questi mesi si sono intensificati i contatti bilaterali: il Governo italiano ha incontrato emissari USA (la stessa Premier Meloni si è recata a Washington) per evidenziare il danno reciproco che queste misure causano.
Sul fronte interno UE, una preoccupazione è evitare divisioni: “nessuna fuga in avanti dei singoli Paesi” ha auspicato Confagricoltura. Cioè, l’Italia non deve negoziare individualmente concessioni con gli USA a scapito di un approccio unitario europeo. Serve una risposta compatta dell’UE. In quest’ottica, si discute la creazione di un fondo europeo di compensazione per i settori colpiti dai dazi. La Confagricoltura ha proposto un “nuovo piano europeo con risorse non utilizzate del PNRR e altri fondi UE” dedicato a sostenere la competitività delle imprese italiane sul mercato USA. In pratica, parte dei fondi stanziati per la ripresa (Next Generation EU) che non fossero ancora impegnati potrebbe essere riallocata per aiutare le aziende esportatrici: ad esempio tramite crediti d’imposta per attenuare l’onere dei dazi, contributi per campagne promozionali straordinarie nei mercati alternativi, finanziamenti agevolati per investimenti in internazionalizzazione.
La rivisitazione del PNRR
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) italiano già prevede misure per la competitività e l’internazionalizzazione delle imprese agroalimentari, ma queste erano pensate in un contesto pre-dazi. Ora si rende necessario rimodulare alcune azioni del PNRR per fronteggiare l’emergenza: ad esempio, aumentare i fondi per il “Patto per l’Export”, ossia per fiere, missioni commerciali e marketing del Made in Italy all’estero (aiutando le aziende a cercare nuovi sbocchi oltre gli USA). Il Ministero degli Esteri e ICE hanno annunciato iniziative specifiche di promozione in Asia e altre aree per assorbire il colpo. Inoltre, il governo italiano sta valutando la riduzione di alcuni costi burocratici interni per le aziende esportatrici (certificazioni, pratiche doganali) così da compensare indirettamente la perdita di margine.
Sul piano interno europeo, è stata anche avanzata l’idea di attivare la riserva di crisi agricola UE, uno strumento finanziario che può indennizzare i settori agricoli colpiti da eventi eccezionali di mercato. I dazi USA potrebbero rientrare in questa casistica. In parallelo, si insiste sulla tutela dalle imitazioni: se i prodotti italiani autentici faticano negli USA, l’UE vuole almeno rafforzare la protezione delle denominazioni (DOP/IGP) e combattere l’Italian Sounding nei mercati internazionali, per evitare che il danno commerciale diventi anche danno reputazionale a favore di falsi.
In conclusione, la parola d’ordine istituzionale è sostegno e negoziato. L’Europa cerca una risposta unitaria per convincere gli USA a rivedere la linea dura sui dazi (magari offrendo in cambio aperture su altri fronti commerciali, come un accordo industriale di abbattimento reciproco dei dazi – ipotesi di “zero tariffe” sugli industriali è stata ventilata). Nel frattempo, attraverso fondi UE e nazionali (PNRR, riserva crisi, fondi di promozione), si vuole accompagnare i produttori italiani perché possano resistere sul mercato USA senza soccombere e, se necessario, reindirizzare le proprie esportazioni altrove. Questa mobilitazione pubblico-privata è cruciale: l’agroalimentare è un settore strategico del Made in Italy (oltre €70 mld di export globale nel 2024) e salvaguardarne la crescita significa proteggere reddito e occupazione in tante filiere. Come ha affermato il presidente di Confagricoltura, “È essenziale evitare che decisioni unilaterali mettano a rischio la competitività delle nostre imprese e il lavoro di intere filiere”. L’auspicio è che tramite diplomazia commerciale e misure di resilienza finanziate anche dal PNRR, l’impatto dei dazi USA possa essere gestito e ridotto, in attesa di una soluzione di lungo periodo che ripristini condizioni di libero scambio più favorevoli per il Made in Italy.
Conclusione
I nuovi dazi imposti dall’amministrazione Trump nel 2024-2025 rappresentano una sfida senza precedenti per l’export agroalimentare italiano negli Stati Uniti. A differenza del 2019, questa volta la misura è più ampia e colpisce virtualmente tutto il paniere del Made in Italy alimentare, minacciando un mercato che vale quasi 8 miliardi annui per le nostre imprese. L’impatto potenziale varia da settore a settore, ma in generale si temono cali significativi di competitività, fatturato e quote di mercato a vantaggio di competitor stranieri. L’Italia vede a rischio alcune delle sue eccellenze più iconiche – dal vino al Parmigiano – proprio in un momento in cui l’agroalimentare tricolore stava vivendo un trend di crescita record in USA.
La risposta del sistema paese deve essere molteplice: le aziende sono chiamate a reagire con strategie di adattamento, innovazione e diversificazione, mentre le istituzioni devono sostenerle e lavorare sul piano diplomatico per rimuovere gli ostacoli. Come spesso accade, ogni crisi porta con sé anche un insegnamento: questa situazione evidenzia l’importanza di avere mercati di sbocco diversificati e di investire sul valore aggiunto unico dei prodotti italiani. Nel medio termine, l’auspicio è che i dazi possano rientrare (magari con un cambio di contesto politico-commerciale) e che il Made in Italy possa tornare a competere ad armi pari negli USA. Nel frattempo, resilienza e capacità di adattamento saranno fondamentali per attraversare questa fase. L’agroalimentare italiano ha già dimostrato in passato di saper reggere a shock esterni (basti pensare alla pandemia e alle tensioni commerciali pregresse) e, con il giusto supporto, potrà mitigare i danni e continuare a portare sulle tavole di tutto il mondo – America compresa – quei sapori e quella qualità che rendono l’Italia un unicum nel panorama enogastronomico globale.